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Vincenzino

21 novembre 2013
"Vincenzino" di Simona Busto (Storia vera di Valentina Frezza, da "Confidenze tra amiche", numero 46, 2013)

Ero andata al posto di polizia municipale per tutt’altro motivo, ma oggi posso dire che è stato un vero miracolo se sono capitata lì giusto in tempo per sentire quella conversazione.
«Come?» diceva l’agente «un cucciolo in mezzo alla spazzatura? Sta male, capisco. Va bene, mi dia le coordinate. Appena ci liberiamo interverremo. Sì, capisco che la situazione è grave, le garantisco che faremo il prima possibile.»
Gli diedi giusto il tempo di mettere giù il ricevitore, poi mi precipitai di fianco all’agente. Faccio la volontaria in provincia di Napoli da tanto tempo, so bene che purtroppo ci sono molte emergenze e un cane in difficoltà non è una priorità.
«Se non riuscite ad andare voi,» dissi subito, «controllo io. Potrei andarci adesso. In caso di necessità chiamerò immediatamente l’ASL.»
Lui sospirò, ma mi allungò un foglio con l’indirizzo. Ormai credo che si siano rassegnati alle follie di questa strana razza, quella dei volontari.
Guidai alla massima velocità possibile. So per esperienza che in certi casi la rapidità è tutto. I cumuli di rifiuti erano alti e maleodoranti. La strada era trafficata. Pregai che il cagnolino non avesse avuto la sciagurata idea di attraversare. Non lo vedevo da nessuna parte. Poi all’improvviso lo scorsi, proprio in mezzo ai rifiuti. Il mio cuore mancò un battito e per un attimo, nonostante i lunghi anni passati a riscattare cani, mi sentii mancare. Il cucciolo era bianco, un piccolo mucchietto di pelo sporco e triste; ma quello che mi fece veramente male fu vedere che aveva gli occhi completamente fuori dalle orbite. Col viso bagnato di lacrime mi avvicinai a lui e cacciai i mosconi che tormentavano la sua povera testolina martoriata. Lo raccolsi con tutta la delicatezza di cui ero capace. Non volevo spaventarlo.
Il piccolo sussultò quando si sentì sollevare dalle mie mani, ma non protestò né si divincolò. Stranamente si fidò subito. Forse si era rassegnato ad attendere la morte così, al buio e in mezzo all’odore della spazzatura, tormentato dalla fame e dal dolore dell’infezione che avanzava.
Lo strinsi al petto come un tesoro prezioso e lo misi immediatamente in auto. Guardando la smisurata fiducia sul suo musetto, notando la docilità con cui si lasciava portar via, un pensiero si affacciò alla mia mente: «Non posso tradirlo riservandogli mesi d’inutili torture. Se mi dicono che non c’è nulla da fare, chiederò di porre subito fine alle sue sofferenze. Ha già patito troppo, non lo merita.»
Perfino i veterinari della clinica rimasero a bocca aperta nel vederlo. Un tale scempio su di un essere così piccolo e indifeso è inconcepibile, fatico ancora a trovare le parole per raccontare questa storia.
Lo osservai mentre si lasciava maneggiare senza agitarsi. Era come se sapesse che stavano facendo tutto per il suo bene. Dava davvero la sensazione di accettare le cure con sollievo.
La prima cosa che mi dissero non faceva sperare per il meglio: «Signora, per gli occhi purtroppo non c’è nulla da fare. Sono ormai irrecuperabili. Li dovremo asportare.» Mi sentii gelare. «Però,» aggiunse il veterinario, un po’ impietosito dallo sgomento sul mio volto, «siamo in tempo per arginare l’infezione.» Sorrise, prima di concludere dicendomi quello che non osavo sperare: «Si salverà.»
Piansi di nuovo, stavolta per il sollievo. Ora potevo pensare al nome da dargli. L’avevo trovato il giorno di San Vincenzo, quindi decisi che il suo nome sarebbe stato Vincenzino.
Tornata a casa, mi sentii di nuovo in balia dei dubbi. Quel cagnolino, così piccolo,fragile e ferito, mi era entrato dritto nel cuore. Non riuscivo a fare a meno di pensarci. Mi chiedevo se fosse giusto lasciarlo vivere in quelle condizioni. I veterinari mi parlavano di una “normale vita da cane cieco” e mi garantivano che un cucciolo di quell’età non avrebbe faticato ad adattarsi a questa nuova condizione. Io però temevo che la sua esistenza sarebbe stata un susseguirsi di nuove sofferenze e pensavo che forse gli stavo imponendo una non-vita che non valeva la pena di essere vissuta.
Il giorno seguente tutte le mie esitazioni erano svanite all’improvviso. Adoravo quel cucciolo, non avrei mai potuto permettere che venisse soppresso. Lui ce l’avrebbe fatta, non era in pericolo di vita, e io sentivo che era mio preciso dovere fare di tutto per aiutarlo a vivere.
La prima cosa che fecero fu rimuovere i bigattini dagli occhi. Mi faceva star male il pensiero che quelle creature se lo stessero mangiando vivo.
Passò una settimana. Ogni giorno andavo alla clinica a trovare il piccolo Vincenzino, sentendo nel cuore un misto di apprensione ed entusiasmo. Lui riconosceva il mio odore e il rumore dei miei passi, e scodinzolava felice. Era un appuntamento quotidiano a cui non avrei potuto rinunciare.
E venne finalmente il giorno in cui gli dovevano asportare i bulbi oculari e il nervo ottico. Uno stretto nodo m’imprigionava la gola. Sapevo bene che gli occhi di Vincenzino erano ormai inutili appendici. Lui non vedeva, e non c’era nulla che potessi fare per cambiare questa realtà. Di nuovo mi sorpresi a pormi le solite domande. Sto facendo la cosa giusta per lui? Potrà essere felice? Esisterà al mondo una persona disposta ad accogliere nella propria famiglia un povero cucciolo cieco?
Ero tesa fino all’inverosimile. Capii infine che c’era una cosa sola che contasse per me: volevo che Vincenzino vivesse.
Il sorriso del veterinario fece cadere in un attimo quel pesante macigno dal mio cuore. Era andato tutto bene. Poi lo vidi, con le orbite cucite e una tintura azzurrognola sul pelo candido come neve. Lo abbracciai e piansi, mentre lui pian piano si risvegliava dall’anestesiaPrenotato Fede, cagnolino di piccola taglia. Mi leccò le mani. Nonostante tutto il dolore, aveva fiducia. Vincenzino era disposto a dare un amore incondizionato a chiunque fosse disposto ad accettarlo per quello che era.
Lo tennero ancora una settimana in osservazione, poi finalmente potei stringerlo forte tra le mie braccia mentre lasciavamo la clinica. Direzione casa mia! Avevo già da tempo deciso ch sarebbe rimasto da me fino all’adozione, non potevo pensare di lasciare quella piccola nuvola bianca sola nell’arido box di una pensione.
Sapevo che uno strumento importantissimo per trovargli una casa vera poteva essere il mio profilo facebook. Sin dal ritrovamento avevo pubblicato le sue foto e la sua storia, aggiornando ad ogni suo piccolo progresso. Certo non mi aspettavo che Vincenzino sarebbe presto diventato una star. Moltissime persone mi scrivevano, chiedendo notizie sulla sua salute, pregando e piangendo per lui, per la mia candida nuvola sporcata dai rifiuti dell’uomo.
E con grande sorpresa e immenso sollievo vidi che iniziavano ad arrivare anche le richieste di adozione.
Continuai a occuparmi di lui insieme a un’amica. Quasi ce lo litigavamo. Era incredibile quanto fosse facile legarsi a quel meraviglioso cagnolino, così dolce buono ed educato.
Lo vidi crescere e migliorare. Finalmente gli tolsero i punti e poté fare il suo primo bagnetto. Si lasciava fare qualsiasi cosa con pazienza e fiducia infinite. Ogni novità mi dava emozioni incredibili, mentre per lui tutto sembrava facile e scontato. Pareva quasi che fosse nato così: non aveva alcuna difficoltà.
Molte persone mi aiutarono a sostenere le notevoli spese per le sue cure. Non ce l’avrei fatta da sola, né economicamente né psicologicamente. Non mi ero mai trovata di fronte a un caso così grave prima.
Dopo qualche giorno dall’uscita dalla clinica, mi chiamò Giada. Sin dalle prime parole che pronunciò capii subito che lei era la persona giusta per adottare Vincenzino. Le richieste arrivate erano molte, ma nessuna delle altre persone interessate sembrava adatta quanto lei. Il mio cucciolo bianco era un cagnolino molto impegnativo e necessitava di una gran dose di pazienza e tempo libero. E questo nonostante stesse rapidamente imparando a essere autonomo: mangiava da solo, giocava e correva, proprio come un qualsiasi cucciolo “normale”.
Giada era diversa da tutti gli altri candidati adottanti: mi scriveva tutti i giorni per sapere di lui, mi mandava foto della sua casa e del suo cane. Le raccontavo che Vincenzino cresceva in fretta ed era di una tenerezza infinita. Tutti noi ne eravamo follemente innamorati. Riconosceva tutti, umani e cani. Adorava giocare con i suoi simili. Ormai nessuno notava nemmeno più l’handicap. Il suo carattere allegro, la sua vivacità, la sua capacità di amare l’avevano fatto svanire come per magia.
Venne il momento in cui doveva andare a raggiungere Giada, che sarebbe stata la sua nuova mamma adottiva. Mentre prenotavo il treno per accompagnarlo non potevo fare a meno di sentirmi pervadere da un’immensa tristezza. A breve mi sarei dovuta dividere dalla mia adorata nuvola bianca. Benché sapessi che questo momento sarebbe prima o poi arrivato, l’idea della separazione mi era davvero penosa. Avrei voluto con tutta me stessa poterlo tenere con me, anche perché il legame con lui era ormai fortissimo.
Avevo già due cani e il volontariato animalista m’impegnava moltissimo. Adottare Vincenzino e seguirlo in maniera adeguata, avrebbe significato dover lasciare tutto. Ma io sapevo che là fuori c’erano molti altri cani che attendevano il mio aiuto, per questo non potevo tenere con me quella meravigliosa creatura, solo per non fare un torto agli altri bisognosi.
Passai il viaggio a cercare di mandar via quel terribile nodo alla gola, ma invano. Vincenzino invece dormì per tutto il tempo, come se nella sua vita non avesse fatto altro che viaggiare in treno.
Appena arrivammo a Milano avvertii una fortissima emozione; il cuore mi tamburellava in petto.
Giada e il fidanzato ci aspettavano al binario. Lei mi abbracciò, poi si chinò su Vincenzino, e lui le si gettò letteralmente tra le braccia, come se avesse capito da subito che quella era la persona che si sarebbe occupata di lui da quel momento in poi.
Passai qualche ora con loro, anche per non dare un trauma al piccolo. Volevo che si abituasse prima alla sua nuova famiglia, poi avrei potuto considerare completamente svolto il mio ruolo nella sua vita.
Infine venne il temuto momento: il treno del ritorno mi aspettava. Giada e il suo compagno presero Vincenzino tra le braccia. Ci salutammo, cercando di fare in modo che il piccolo non capisse.
Non potei fare a meno di voltarmi e rivoltarmi indietro. Sentivo un gran vuoto nel petto, e lacrime pesanti mi bagnavano il viso.
Sapevo di aver fatto la scelta giusta, capivo che Vincenzino sarebbe cresciuto sano e in fretta e che la sua felicità era assicurata, eppure quello fu il più doloroso degli addii.
Non posso fare a meno di ringraziare questo meraviglioso cagnolino. Se è vero che lui è cresciuto con me, è altrettanto vero che io sono cresciuta grazie a lui.