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Il lupo e il filosofo

“Il lupo e il filosofo”, di Mark Rowlands (Oscar Mondadori, 10 euro).


Susanna Barbaglia - Editoriale per Donna moderna numero 2-2013  

LA VERITA’ DEL LUPO

Niente succede per caso. Neppure l’incontro con un libro che sembra scritto per rispondere alle domande, ai dubbi, alle incertezze che senti premere dentro e che non sai come affrontare. E proprio all’inizio di un nuovo anno, ancora pieno di incognite, di interrogativi.
“Leggi Il lupo e il filosofo di Mark Rowlands. Ti piacerà”. Qualche giorno fa, il consiglio di  un amico che conosce il mio amore per gli animali, in realtà mi ha proiettato in un imprevisto, entusiasmante viaggio nella parte più profonda e antica della mia specie. Quella umana.
L’autore, un professore gallese di Filosofia a Miami, racconta i suoi undici anni di vita insieme a un lupo. Detto così, ci si aspetterebbe da un lato una storia che, se pure coinvolgente può essere un déja vu, dall’altro il saggio di un dotto intorno a riflessioni teoriche.
Niente di più lontano. Rowlands invita dalla prima pagina il lettore a condividere il suo percorso con lo stupore e la spontaneità  di un bambino. E il suo modo di raccontare è semplice, anche quando svela le sue deduzioni più profonde. L’incontro con il suo fratello lupo è avvenuto per caso, attraverso un’inserzione sul giornale locale che pubblicizzava una cucciolata di lupi. Non cani lupo. Lupi veri.  Rowlands era un giovane promettente (27 anni) all’inizio della carriera universitaria, un po’ scapestrato (“un pazzo che ululava alla luna e si infuriava con Dio”, come lui stesso si definisce), con tendenza alla solitudine e all’alcolismo. Il lupo, un cucciolo morbido, senza spigoli, un piccolo leone. Per questo lui lo chiamò Brenin, “re” in gallese.
Dal momento in cui i loro occhi si incontrarono, Rowlands e Brenin non si separarono più. Brenin si abituò ad assistere alle lezioni di Rowlands, lo seguì in lunghi viaggi oltreoceano, corse per ore con lui all’alba, sulla spiaggia o nei parchi. Giorno dopo giorno, uomo e lupo si isolarono sempre di più, uniti da un linguaggio comune che cresceva di pari passo con un potente senso di appartenenza reciproco. In quegli undici anni di costante convivenza con il suo lupo, Rowlands  diventò un uomo diverso, migliore. Da Brenin imparò l’orgoglio, le regole del vivere in branco, l’attimo vissuto e goduto per quello che è, senza aspettative. Imparò la libertà.  E riconobbe nell’intelligenza del suo lupo quella di un animale primordiale, istintivo, incapace di imbrogli. Una Verità che noi uomini evoluti abbiamo soffocato con calcoli, progetti e inganni per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno e spesso a scapito di chi è più debole. Quando Rowlands capì razionalmente, ma non emotivamente che Brenin stava morendo, imprecò e si ubriacò fino quasi a uccidersi. Poi, disperato, lasciò le sue spoglie in Linguadoca, l’ultima tappa del loro meraviglioso viaggio insieme, sotto un mucchio di pietre gettate a caso che, magicamente, presero la forma di Brenin, come il totem di uno spirito guida. Ora Rowlands dichiara di essere in un momento fantastico della sua vita. Ha una moglie e un figlio, il suo “branco” umano, e una professione che gli permette un tenore di vita altissimo. Ma Brenin gli mancherà sempre. Lo pensa ogni giorno, e glielo dice. Chiude il libro con la promessa di una visita estiva al suo totem di pietra. “Fino ad allora dormi bene, fratello lupo. Ci incontreremo di nuovo nei sogni”. Regala un messaggio forte, questo libro. Sprona a vincere dubbi e incertezze, paure e ingiustizie, riconoscendo quella nostra Verità sepolta e mai scomparsa. La luce che ci indica ciò che sentiamo davvero. Leggetelo.