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Magoo

11 giugno 2013
Simona Busto (da "Confidenze tra amiche" numero 22, 2013)

Si chiamava Magoo, nome scelto per via della sua vista limitata. Era rosso e paffuto, un gattino giovane, ma già grande di taglia.
Entrammo a casa di Sara e lui subito ci corse incontro, la gambetta un po’ rigida, facendo rumorosamente le fusa. Mi piantò le unghiette nei jeans e iniziò ad arrampicarsi. Lo presi in braccio con delicatezza, facendo attenzione alla zampa ferita. Lui aumentò il volume delle fusa. Mi guardò, aveva un occhio velato, in parte coperto da una patina bianca. Il musetto era buffo e tenero, la testolina tonda, diversa da quella dei gatti che ero abituata a vedere. Pensai subito che, nonostante l’occhio cieco e la zampa depilata, era una vera bellezza.
Sara rise. - Se lasci che salga, ti arriva fin su una spalla. Quand’era piccolo mi saltava sul cappellino. -
Mi chiese se lo volessi. Lei non poteva tenerlo a lungo in casa e, se lo avesse riportato dov’era prima, libero, sicuramente sarebbe finito sotto una macchina. La prima volta era andata bene, ma alla seconda la sua fortuna si sarebbe potuta esaurire.
Mio padre aveva sempre detto di detestare i gatti; eppure non ci riflettei a lungo. Lui non mi rivolse la parola per una settimana, poi lo scoprii ad accarezzare Magoo, dolcemente e ripetutamente, quando credeva che nessuno lo vedesse.
Magoo decise subito che il mio letto era anche il suo; la prima notte non chiusi occhio, poi mi abituai.
Il pelo sulla zampina pian piano ricrebbe, ma lui, benché guarito, continuava a tenerla tesa quando si sdraiava. La sua posizione abituale era sullo schienale del divano, dietro di me, disteso a pancia in giù con la zampa allungata. Era buffo e faceva tenerezza, per anni continuò ad assumere quelle posa.
Alla sera mi aspettava. Non avrei mai creduto che un gatto potesse comportarsi così. Quando rientravo, anche se non parlavo e mi sforzavo di non far rumore, alzando gli occhi sulla scala che dal garage portava al corridoio del primo piano, vedevo la sua sagoma stagliarsi dietro la porta a vetri, seduto in paziente attesa. Il pensiero che si comportasse così solo con me mi faceva stringere ogni volta il cuore, per la commozione e l’orgoglio. Lui voleva stare con me, solo con me, sul mio letto, sulla mia scrivania, sui libri quando studiavo, e soprattutto sul mio grembo. Appena mi sedevo si precipitava tra le mie braccia, quasi temendo che potessi andarmene da un momento all’altro, divorava le carezze con avidità, come se pensasse che ogni tocco delle mie mani potesse essere l’ultimo.
Per un intero anno di vita nessuno aveva placato la sua ingordigia d’amore e adesso si godeva tutti gli arretrati. Per tutta la sua vita si sarebbe comportato così, accoccolato tra le mie braccia o appoggiato alle mie gambe sul letto, gli occhi socchiusi, raccogliendo tutto l’amore che poteva immagazzinare il suo corpicino rosso.
Aveva imparato ad aprire le ante degli armadi, per poter dormire indisturbato tra i miei vestiti quando non ero in casa.
E poi Magoo amava giocare, nascondendosi dietro le porte e precipitandosi contro le gambe di tutti i componenti della famiglia, piccolo proiettile un po’ imbranato, capace di sbagliare mira e cascare dal lavandino o di spiaccicarsi contro un muro nella foga del gioco.
Ho ricevuto centinaia di piccole ferite dalle sue unghiette affilate, ma con cattiveria mai, neppure una volta si è voltato a graffiare se non per gioco. Faceva le fusa perfino alla veterinaria che gli toglieva il sangue o gli toccava un dente traballino.
Adorava sdraiarsi sul letto a pancia all’aria, attendendo che la mano fosse irresistibilmente attratta dal suo ventre rotondetto, poi l’afferrava con tutte e quattro le zampine e se la portava alla bocca per morderla, come un cucciolo.
Magoo sapeva seguirti di stanza in stanza come un cagnolino, sempre accompagnato dal suo immancabile ron ron.
Per oltre quindici anni il suo testone rosso ha accompagnato ogni momento della mia vita, felice e infelice.
E’ sopravvissuto a mio padre, con cui aveva passato lunghe serate a guardare la tv, uno seduto in poltrona, l’altro accoccolato sul bracciolo.
Io e mia madre mancammo da casa per venti lunghi giorni, il tempo passato in ospedale, altri andavano a nutrire Magoo al posto nostro. E lui era sempre lì, ad aspettarci, miagolando triste e solo, disperato, forse partecipe del nostro dolore.
Quando tornammo, lui sembrava ancora attendere, seduto sul divano, perché qualcuno ancora non era rientrato, e Magoo era inconsapevole del fatto che non si sarebbero mai più rivisti.
Il mio dolce batuffolo rosso ha vissuto una bella e lunga vita. Il tracollo è arrivato all’improvviso; tutto è partito da un’apparentemente banale infezione ai denti. Sembrava essersi ripreso, pareva mangiare normalmente. Poi però l’infezione si era improvvisamente estesa. Un giorno lo guardai muoversi, respirando affannosamente e vidi che era disorientato e urtava qualsiasi ostacolo. Magoo, il mio dolce piccolo Magoo era diventato cieco.
Tolsi tutto quello che poteva fargli del male e sistemai quel che gli serviva il più possibile vicino, la cuccia, la lettiera, le ciotole del cibo e dell’acqua. Eppure vedevo che faticava a trovare tutto e spesso si sporcava o si bagnava.
Arrivò presto al punto che non riusciva più a mangiare autonomamente, nemmeno avvicinandogli la ciotola.
Lo vedevo soffrire, perennemente spaventato, ora immerso nel terribile buio che non comprendeva, sentivo il suo respiro farsi di giorno in giorno più difficoltoso, ma non riuscivo a prendere la terribile decisione che mi si parava innanzi. Non volevo né potevo accettare l’ineluttabilità della fine dei suoi giorni.
Iniziai a imboccarlo, prima col cucchiaino, poi con una siringa, ma diventava sempre più magro, si sporcava, la mandibola diventava gonfia, gli occhi spenti piangevano continuamente. Sembravano lacrime umane.
Una sera tornai a casa e lo trovai immobile in una stanza vuota. Aveva trovato le forze per spostarsi fin lì, ma ora sembrava non averne più nemmeno per respirare. Cercava l’aria fino in fondo al suo povero corpicino, sul quale si potevano contare le ossa. Era un piccolo scheletro con un’enorme bellissima testa martoriata.
Non potei più aspettare. La puntura non fu il momento peggiore, l’ultimo bacio lo fu. Poi si addormentò; e io sentii quell’amato pelo farsi via via più freddo.
Spesso, troppo spesso, mi dico che forse l’ho lasciato soffrire più di quanto avrei dovuto e questo pensiero mi causa rimorsi con cui è difficile convivere. Lui in tutta la vita ha saputo dare solo amore, io l’ho probabilmente ricambiato con un eccesso di egoismo.

Perdonami, Magoo, se ho avuto la colpa di sperare l’insperabile e, ti prego, resta con me come hai fatto finora. Ti vedo continuamente. Ogni volta che mi giro ho la sensazione di vedere la tua sagoma rossa, leggera e morbida, che si nasconde in un angolo. Resta per sempre a farmi compagnia, avrò sempre bisogno di te.