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L'amico più grande

18 luglio 2013
Simona Busto (da "Anime Compagne" ilmiolibro.it, versione originale pubblicata in "Confidenze tra amiche", numero 51, 2012)

Marco ha dieci anni e due grandi occhi neri. Cammina tenendo la testolina piegata da un lato, con lo sguardo un po’ fisso. La gente crede che non capisca bene quello che gli accade intorno. Gli adulti lo compatiscono, i bambini spesso lo deridono.
Marco invece comprende e vede tutto, benché i suoi occhi passino sopra agli oggetti e alle persone, quasi ipnotizzati da qualcosa di lontano e oscuro.
La scuola gli fa ancora un po’ paura, anche se non più come all’inizio. I primi giorni erano stati tremendi. Marco detesta tutto quello che rappresenta una novità. Ama ripetere le stesse cose ogni giorno, non sopporta che i suoi orari cambino, le modifiche alla routine per lui si traducono in terribili sconvolgimenti.
Ora la scuola è entrata nel cerchio delle sue abitudini quotidiane. È rassicurante, le maestre sono sempre le stesse, le lezioni si susseguono in maniera programmata, è tutto semplice e immediato. E Marco impara tanto e rapidamente, forse più di molti suoi coetanei.
Però ogni tanto da un banco in fondo all’aula si sente provenire una risatina sommessa, una gomma gli colpisce il capo, una matita gli tocca la schiena. Marco non urla più quando accade. Lui si prende semplicemente la testa fra le mani e dondola un po’ la sedia. La sua maestra, quella speciale che è lì apposta per lui, interviene immediatamente, e tutto torna a posto. Anche quello è diventato quasi una routine.
Ma a casa si sta meglio. La mamma lo aiuta a studiare e alla sera torna papà. Marco ama guardare le serie tv con i suoi genitori. Sono appuntamenti fissi. È sempre doloroso quando arriva l’ultima puntata però, quasi come se degli amici se ne andassero per sempre. E Marco non ha molti amici.
Qualche volta, per lo più davanti alla tv, Marco sorride. Di tanto in tanto sorride anche alla mamma e al papà, ma capita più di rado.
Gli piace anche osservare i piccioni che si posano nel cortile. Capita che litighino, arruffino le penne e si colpiscano ferocemente e questo è molto fastidioso. La maggior parte del tempo, tuttavia, i piccioni si limitano a tubare e becchettare, muovendosi frenetici. Alla sera volano via tutti insieme, e si posano sulla grondaia del palazzo di fronte. Marco passa ore a osservarli, la testa appoggiata al vetro della finestra, senza rendersi conto del trascorrere del tempo, né dei pensieri che prendono forma mentre sta lì. I pensieri svaniscono quasi subito appena i piccioni volano via, ed è come se non si fossero mai affacciati alla sua mente.
Al sabato e alla domenica mamma e papà lo accompagnano fuori in auto, in campagna, lontano dal cemento. Marco si dispiace molto quando capita un fine settimana di pioggia, perché la pioggia ferma le cose e ferma anche le passeggiate. E poi ora c’è qualcuno che lo aspetta ogni domenica. Si sentirà senz’altro solo senza di lui.
Sono passati quasi due mesi da quel pomeriggio di aprile, quando i genitori di Marco lo condussero a fare una gita un po’ diversa.
Lui, come sempre, guardava fuori dal finestrino, i campi così verdi, tutti uguali e rassicuranti. Era bello lasciarsi cullare dall’automobile rossa, talmente bello che gli occhi di Marco lentamente si chiusero. Sognò, senza dubbio, ma quasi subito, come sempre, dimenticò il suo sogno. Si svegliò di soprassalto, e immediatamente guardò fuori, ma i campi erano cintati da steccati e in lontananza si vedevano strani animali molto grandi. Tutto questo gli provocò un senso di malessere. «Mamma!», disse a voce molto alta, quasi urlando, «Voglio andare a casa!».
Nessuno dei suoi genitori rispose, sapevano di dovergli resistere a volte, e che sarebbe stato per il suo bene.
«Mamma!», ripeté Marco in tono ancora più alto, «Non mi piace qui! È brutto!».
La donna scosse il capo, ma rimase in silenzio.
Marco si dondolò sul sedile, la testa inclinata e lo sguardo fisso, pronto a esplodere in qualsiasi momento.
La macchina si fermò. L’uomo e la donna scesero e aprirono la portiera posteriore. Marco non li guardava, perso nel suo mondo, la faccia imbronciata. Una ragazza si avvicinò sorridendo e strinse la mano ai genitori del bambino, poi si chinò su di lui.
«Allora, Marco, perché non vieni a fare un giro in scuderia? Ci sono tanti altri bambini, vedrai che ti piacerà».
Lui la guardò di sottecchi, senza muoversi. Il padre allora le fece cenno di andare. Lo lasciarono solo, a dondolarsi contro il sedile. Passarono alcuni minuti, poi Marco lanciò un urlo profondo, che veniva dal fondo della gola. Subito seguito da un altro grido, più protratto e ancora più forte. Rimase in silenzio per qualche istante, in attesa. Nessuno sembrava arrivare. Allora scese con cautela dalla macchina. E si diresse verso quella bassa costruzione in legno, con tante finestrelle allineate.
Appena varcò la soglia un odore intenso lo stordì. Non era sgradevole, solo insolito. Ma ovviamente questo per il bambino era già motivo sufficiente di malessere. Stava per gridare ancora, ma scorse i suoi genitori e la ragazza. Stavano tutti ritti davanti a una pesante porta con le sbarre, altri bambini erano in piedi di fianco a loro e altri adulti guardavano un po’ spostati ai lati. Marco mosse qualche passo incerto in avanti, sentendo il cemento sotto la suola delle scarpe. Il cemento non gli piaceva. Urlò, nessuno degli adulti si volse, ma i bambini lo guardarono. Avevano volti larghi e occhi piccoli. Ridevano o forse sorridevano, in maniera diversa dai suoi compagni di scuola però.
Marco non voleva andare vicino a quegli strani bambini. Lo spaventavano. Camminò ancora, guardandosi piano intorno, musi enormi e grandi occhi malinconici lo fissavano da dietro alle pareti in legno culminanti con delle sbarre, strane celle che limitavano tutto il corridoio sui due lati. Per un attimo il bambino temette che lo volessero rinchiudere con uno di quei mostri. Avrebbe voluto gridare ancora, ma aveva già visto che nessuno degli adulti lo stava prendendo in considerazione. Urlare avrebbe attirato solo l’attenzione di quegli strani bambini, e lui non voleva.
Timoroso, arrivò fino ai suoi genitori, ma si mise in disparte, appoggiandosi al legno dall’altra parte del corridoio e sbirciò quello che accadeva dentro al box. Un bimbo dal viso ampio spazzolava ridendo un piccolo cavallo pezzato dalla criniera color panna. Il cavallino lo guardava con occhi teneri, e di tanto in tanto gli sfiorava il braccio col muso, in un gesto affettuoso. Era tozzo e panciuto, aveva piccole orecchie coperte da lunghi peli e un po’ di rosa tra le narici. Era buffo come un cavallino di peluche.
Marco, torvo, li osservò senza muoversi mentre il bambino sellava il cavallo e lo portava fuori. Arrivò con loro sino al maneggio e guardò i bambini salire in sella uno a uno. La sua mente si stava già perdendo, era lontana, vagava in universi sconosciuti. Si dovette riscuotere quando la ragazza si chinò su di lui. Non l’aveva vista arrivare. Sbatté le palpebre osservandola. Le parole che lei gli aveva detto si erano perse nel suo sogno a occhi aperti. Lei dovette ripeterle: «Marco, che ne dici? Vuoi provare a fare un giretto?».
Il bambino cercò di mettere a fuoco lei e quello che gli stava dicendo, e improvvisamente capì. Scosse freneticamente la testa in segno di diniego e si ritrasse, gli occhi sbarrati.
La ragazza gli sussurrò parole d’incoraggiamento e gli prese dolcemente il braccio. Marco urlò, stavolta incontrollatamente, in preda al terrore. Lei si ritrasse, desolata.
Tornarono in scuderia. Marco riprese il suo posto contro la parete di legno, sempre più scuro in volto, ben lontano dal box di quella piccola creatura spaventosa.
Era assorto, concentrato sulla sua paura. Improvvisamente qualcosa di caldo gli sfiorò una guancia. Il bambino si ritrasse, spaventato, pronto a gridare nuovamente, ma qualcosa lo trattenne. Due grandi occhi scuri, immensamente tristi, lo guardavano dalla grata ora aperta. C’era qualcosa di magico e magnetico in quello sguardo, qualcosa di arcano e consolante. Il bambino rimase immobile, fissando il cavallo dal mantello scuro e dalla testa grande.
«Ti piace Capriccio, Marco?», la ragazza era arrivata al suo fianco silenziosamente, approfittando della sua distrazione. Il bimbo non rispose, ignorandola e rifugiandosi nel suo mondo lontano.
Lei aprì il box, la porta scorrevole faceva uno strano rumore. Marco poté vederlo meglio. Era altissimo, con coda e criniera incolte, il mantello era scuro, aveva un collo molto lungo e sottile all’attaccatura della testa, che sembrava enorme perfino per quel corpo, anche la pancia era molto grande rispetto al resto.
«Lui è grande per te. Prova a fare un giretto su Lady, ti piacerà. È una pony, sai? Va proprio bene per te».
Marco scosse il capo, senza distogliere lo sguardo da Capriccio.
Fecero merenda. I bambini cercavano di parlare con lui, ma Marco non ne aveva voglia, continuava a pensare a quel grosso cavallo dagli occhi malinconici. Non poteva dimenticarlo.
Venne l’ora di andare. Gli altri bimbi erano già tutti partiti, insieme ai genitori. Anche Marco era seduto in auto e ascoltava la ragazza, Cinzia, che parlava con sua madre e suo padre. «No, provate a portarlo ancora», diceva. «Credo si sia innamorato di Capriccio, è buon segno. Non può montare quel cavallo, è alto un metro e ottanta al garrese e tende a mordicchiare perché spera di farsi dare le carote. È un buon cavallo da scuola, tenero e docile, ma va bene per ragazzi più grandi. Però se a lui piace, possiamo iniziare da questo. Prima o poi accetterà di pulire Lady e magari deciderà anche di salire. Credetemi, gli farebbe molto bene montare un po’ Lady, sarebbe un aiuto prezioso per lui».
Il cuore batteva forte nel piccolo petto del bimbo. Sapeva che li stava convincendo a tornare. Improvvisamente quella ragazza gli piaceva. Lui voleva solo venire ancora a vedere Capriccio. Non aveva mai desiderato qualcosa con tanta intensità.
Così Marco tornò la domenica successiva e molte altre domeniche. Però continuava a non guardare Lady né nessun altro pony. I suoi occhi rapiti si fermavano su Capriccio. Gli apriva la grata e lui sporgeva il testone per osservarlo meglio. La loro comunicazione silenziosa durava ore, nulla avrebbe potuto interromperla. La piccola stella bianca in mezzo alla fronte del cavallo attraeva Marco come una calamita.
Un giorno non poté più resistere. Approfittando di un attimo di distrazione degli adulti, pur sentendo una morsa allo stomaco, il bambino allungò la mano. Capriccio abbasso il capo, muovendo la bocca, indeciso se dare un piccolo “pizzicotto” a quel braccino. Cinzia se ne accorse e le si gelò il sangue. In silenzio, cercando di mascherare la propria agitazione sia agli occhi del bimbo sia a quelli del cavallo, si avvicinò al box. Passò un istante che sembrò lungo un’eternità. E finalmente Marco posò la manina sulla stella bianca, scompigliando un po’ il ciuffo del cavallo. Capriccio non l’aveva morso.
Cinzia poté trarre allora un profondo sospiro di sollievo. Accarezzò Capriccio a sua volta e guidò la mano di Marco sulla superficie calda e un po’ ruvida della testa, poi più in basso, fino alla bocca. Il cavallo mosse di nuovo le labbra, tentato, ma anche stavolta non pizzicò. Marco sgranò gli occhi. Non aveva mai provato una sensazione così bella. La bocca di Capriccio era morbida più del velluto sotto le dita, sensibile e mobilissima. Il bambino ebbe la sensazione di essere trasportato in un mondo nuovo, fatto di beatitudine e serenità. Il cavallo chiuse gli occhi, fiducioso, innamorato.
Marco urlò forte quando gli dissero che era ora di tornare a casa. Desiderava solo restare lì, a provare quelle emozioni intense ma rassicuranti. Si calmò solo quando gli promisero che la domenica successiva avrebbe potuto accarezzarlo ancora.
La settimana seguente Cinzia aveva ormai alzato bandiera bianca, sconfitta da quell’amore immenso che era sbocciato spontaneo come un fiore tra i campi. Permise a Marco di entrare nel box, brusca e striglia alla mano. Il bambino esitò un istante, fissando l’unica parte bianca che Capriccio avesse oltre alla stella, una piccolissima balzana sull’anteriore destro. «Balzano da uno, cavallo di nessuno», si diceva, ma Capriccio aveva scelto a chi apparteneva il suo cuore.
Marco tuttavia esitava ancora, le mani strette sulle spazzole. Il cavallo era enorme ed emanava un odore pungente. Solo quando, alzando lo sguardo, incontrò quello triste di Capriccio, solo allora si convinse a farsi guidare dalle mani di Cinzia.
«Piano», sussurrò la ragazza. «È grande e grosso, ma ha un pelo molto delicato».
E il bambino iniziò lentamente a pulire il cavallo, con dolcezza, rimuovendo strati di polvere e truciolo, accarezzando quell’enorme corpo caldo e solido. A Capriccio piaceva essere grattato sul garrese. Si spostò di lato appena Marco iniziò a pulire quella parte, per aiutarlo a lavorare meglio. La sua grande testa si alzò, in un’espressione d’inequivocabile piacere. Un timido sorriso illuminava il volto del bambino.
Era orribile doversi staccare da lui ogni volta che scendeva la sera, ed era meraviglioso tornare la domenica seguente e ricominciare a pulirlo. Presto aveva imparato a fare da solo. Stavano insieme nel box, senza aiuti, si parlavano con il linguaggio del corpo, instaurando una comunicazione perfetta. Appena terminata l’operazione, quando vedeva il bambino deporre le spazzole, Capriccio dilatava le froge ed emetteva un suono basso, gli occhi s’ingrandivano e si facevano attenti. Marco estraeva dal sacchetto le mele accuratamente tagliate a metà e gliele porgeva con la piccola mano ben aperta. Il cavallo le mangiava con avidità, quasi senza masticarle, perso nel dolce succo che gli colava in bocca.
E venne il giorno in cui Cinzia si presentò da loro reggendo in mano una sella. Aveva un sorriso un po’ malizioso. «Allora, Marco», disse in tono suadente, «Proviamo?».
Il bambino sentì che lo stomaco gli si chiudeva all’improvviso, una paura troppo grande si era impossessata di lui. Scosse il capo e arretrò, la testa reclinata di lato, lo sguardo fisso al suolo, vacuo.
Poi la sua schiena urtò qualcosa di grande, e lui sentì un fiato caldo sul collo. Capriccio strofinò la testa contro la sua spalla, grattandosi con delicatezza.
Marco si girò e gli afferrò le orecchie in un gesto a metà tra il possessivo e lo spasmodico, ma gli occhi del cavallo lo guardavano con malinconica fiducia. Allora il bimbo si volse verso la ragazza e la guardò, ancora titubante.
Lei sorrise e avanzò, sellando il cavallo con mosse rapide. In un attimo tutto era al proprio posto: sottosella, sella, testiera e cuffietta. Capriccio masticò il morso in segno di sottomissione. Prima di rendersene conto Marco si ritrovò dei guanti alle mani e un cap in testa.
Non fu facile issarlo in sella, s’irrigidiva per la paura e Capriccio era davvero molto alto per lui. Cinzia gli spiegò come tenere le redini e come infilare il piede nelle staffe. Lui l’ascoltò frenetico, temeva che non capire qualcosa significasse cadere.
Guardò giù e gli venne un senso di vertigine. Stava per girarsi e lanciarsi addosso a Cinzia, ma un fremito di Capriccio sotto la sua gamba lo bloccò. Era come se il cavallo lo invitasse a fidarsi, sembrava che gli dicesse di mettersi comodo e aspettare.
Marco, impettito e immobile nella sella, sentì che Capriccio iniziava ad avanzare, condotto dalla lunghina che legava saldamente la sua bocca alla mano di Cinzia. Si volse indietro e guardò ancora in basso, ma di nuovo il fremito di Capriccio sotto la sua gamba lo convinse a rialzare la testa. Il cavallo si agitava quando Marco si muoveva, probabilmente temeva che perdesse l’equilibrio.
Cinzia invitò il bimbo a star ritto con la schiena e a guardare davanti a sé.
Per parecchi lunghissimi minuti Marco fu come in apnea, i muscoli irrigiditi, la mascella contratta e gli occhi sbarrati. Poi vide i suoi genitori che sorridevano, vide il sole che entrava dalle aperture nel maneggio coperto, e si rilassò un pochino. Ora che le gambe non erano più rigide, poteva sentire i movimenti cadenzati dei muscoli di Capriccio, percepiva il suo calore, il suo odore, la sua potenza. Era come se un po’della forza e della serenità del vecchio cavallo si fossero trasmesse a lui. Ed ecco che, all’improvviso, una sensazione nuova e immensa gli scoppiò nel cuore: era libertà, era energia, era controllo, era fiducia.
Scoprì che sedere su quel cavallo e muovere i piedi a ritmo con i suoi passi lo fondeva in lui. Diventavano una sola meravigliosa creatura primigenia. Lontani l’uno dall’altro erano deboli prede pronte alla fuga, insieme erano libertà infinita e forza inarrestabile.
Un sorriso radioso illuminò il volto di Marco mentre Capriccio avanzava placido e pigro verso il loro comune futuro.